Albino Galvano
Ignoro cosa la pittrice Venere Chillemi pensi del femminismo e delle femministe ma, se esse conoscono la sua arte non possono che rallegrarsene e compiacersene. L’arte della Chillemi è, infatti, pittura creata da una donna a rappresentazione e celebrazione della figura femminile, della sua grazia, del suo fascino; di quel “femminino eterno” cantato da Goethe e Carducci. E’ forse il suo un impegno suggeritole dal suggestivo ma impegnativo nome impostole alla nascita? Sia come sia, ciò che veramente importa è che l’impegno dell’artista è, nel suo caso, sostenuto da doti tecniche robuste e insieme raffinate che la conducono a felici realizzazioni su di un terra cosi difficile e che ha visto, lungo il corso della storia dell’arte, un numero tanto imponente di variazioni. L’originalità della pittura di Venere Chillemi mi sembra consistere principalmente in un felice equilibrio fra una sicurezza disegnativa di quasi compiaciuto linearismo e una sottile sensibilità coloristica giocata ora su colori cauti e tenui, ora su accensioni improvvise di rossi e di turchini. Un disegno e un colore che si vorrebbe dire “musicali”, ma di una musicalità fatta più di linee melodiche che di consonanze o dissonanze armoniche. Una pittura di “superficie” come in certi fogli del Liberty o delle stampe giapponesi che li avevano influenzati. Ma le analogie si fermano qui perché la visione dalla Chillemi non ha nulla di accattato esotismo o di decorativo puramente ornamentale. Anzi, sua visione della grazia femminile è sostenuta da una capacità di approfondimento psicologico che va al di là del dato formale. Lo sguardo dei volti che essa delinea è intenso ed espressivo e, pur con minime variazioni, rivelatore della diversa psicologia, dei differenti caratteri o disposizioni d’animo dei personaggi rappresentati. E spesso nelle sue figure appunto l’occhio è come il centro ideale intorno cui si svolge il cerchio dei capelli, delle vesti, dello stesso ambiente che alla figura serve di sfondo (più spesso orizzonti autunnali rabescati di alberi spogli). Una visione, dunque, crepuscolare, quasi venata di malinconia, quella di Venere Chillemi? Forse. Certo una visione interiorizzata, intimistica. Se le sue figure si accampano spesso su fondi “esterni”, sembra che la pittrice voglia ammonirci che il mondo esterno emerge nei suoi quadri come proiezione visionario dell’inconscio e che di questo serba il carattere umbratile, onirico. Un carattere simile all’espressione che si legge nei grandi occhi, intensi, talvolta un poco tristi, delle sue figure. Come si vede, la pittura della Chillemi sforza a portare il discorso critico al di là dell’analisi dei dati formali, delle risorse tecniche. E’ un segno di autenticità che non sempre si ritrova nell’opera di artisti anche più celebrati. E di fronte alla sequenza dei volti e degli atteggiamenti muliebri che la pittrice ci fa scorrere innanzi si è colti anche da un’altra tentazione: quella di abbandonarsi alla fantasticheria e di cercar d’immaginare, dietro a quelle intense espressioni una vita, una vicenda di cui i quadri dell’artista sarebbero come le illustrazioni dell’ideale narrazione. Sono tentazioni dalle quali il critico deve ovviamente guardarsi, ma il fatto ch’esse sorgano dice molto sul carattere della pittura di questa artista: forse più di quanto lo potrebbe fa- re l’appesantirsi del discorso su lunghe analisi formali. A Venere Chillemi e alla sua pittura si addice più che un approccio di “pura visibilità” uno (ci si perdoni l’improvviso neologismo) di “pura sensibilità”. Queste brevi note non possono che chiudersi con l’augurio che un lungo arco di lavoro conceda sempre più a Venere Chillemi e agli estimatori della sua arte di moltiplicare le occasioni di guardar negli occhi delle sue figure, di assaporarne i sensi di serenità o di malinconia: sempre sensi di grazia.